Sembra poco

Appunti per nature morte post tempus

“Sembra poco”.  Un’affermazione che inganna. È il linguaggio quotidiano che normalizza la perdita, lo scarto, il residuo. Ma è anche il punto di partenza da cui Simone Matti costruisce una riflessione sullo spreco alimentare, trattato non come dato statistico, bensì come gesto di cura, di raccolta, di memoria.

Attraverso l’apparente leggerezza dello scatto fotografico – una pratica che si fa archivio, rito e confessione – Matti compone una serie di immagini che si situano tra la natura morta pittorica e l’estetica della Food Photography, sovvertendone consapevolmente codici e convenzioni. Il cibo, che nella pittura barocca costituiva allegoria della caducità e del desiderio borghese, oggi è divenuto, nelle immagini, un prodotto cosmetico per l’economia digitale. In questo slittamento, la fotografia commerciale ha ereditato le strategie visive della pittura secentesca, con i suoi artifici illusionistici (sconvolgente scoprire che oggi la figura professionale del Food Stylist si occupa di curare l’estetica del cibo per renderlo visivamente appetibile, spesso utilizzando materiali non commestibili per simulare freschezza, cottura o abbondanza) con una precisa volontà di induzione al consumo e - di conseguenza - allo spreco. Matti interviene sulle immagini con un gesto semplice: il comando “cmd+I” in Photoshop. Uno strumento tecnico che diventa atto simbolico, dove invertire è già un modo per sovvertire: sovvertire i codici visivi, sovvertire l’estetica del consumo, sovvertire la narrazione insidiosa del cibo come oggetto desiderabile. Le didascalie si accostano alle immagini come titoli di nature morte. In questa forma richiamano alla mente le didascalie museali, ma qui, al contrario, non nobilitano: ogni parola rivela un rapporto conflittuale con ciò che mangiamo, contribuendo a creare una cosmologia domestica dello spreco. 

Se ci sentiamo chiamati in causa, è solo perché ci confrontiamo con le nostre stesse contraddizioni — una dissonanza cognitiva inevitabile in sistemi che normalizzano lo spreco e la violenza, considerando che ciò che definiamo “cibo” è spesso vita, intelligenze non umane ridotte a meri oggetti di consumo. In realtà, Matti espone e punta il dito esclusivamente su se stesso, ma da questo gesto di auto-riflessione emerge l’aspirazione a incoraggiare una pratica etica collettiva post tempus, capace di sfidare, seppur fuori tempo massimo, non solo la cultura dello spreco, ma anche le gerarchie speciste e antropocentriche che ne sono alla base.

Nel suo insieme, il progetto si offre come uno strumento critico che rifiuta una retorica della colpa, per abbracciare, piuttosto, un’etica della responsabilità. Un lavoro leggero solo in apparenza, che agisce come una goccia, capace di fendere la superficie delle nostre coscienze.


Silvia Bigi

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